Non c’è luogo più significativo, quest’anno, per celebrare il 1° maggio. Assisi. Un luogo di pace e di riconciliazione. Pace e riconciliazione che sono la precondizione di ogni cosa. E che oggi servono più che mai. Nel mondo: dove sono in atto oltre 60 conflitti. E dopo tanto tempo anche in Europa. Dove la parola “guerra” torna a riempire le nostre vite con la sua tremenda realtà. Migliaia di vittime innocenti, stragi di civili inermi, l’esodo forzato di milioni di profughi. Vite distrutte in poche ore. Vite di lavoratori, pensionati. Famiglie intere. Giovani, donne, bambini.
Tutto questo ha un solo responsabile, un solo colpevole. Tutto questo ha avuto inizio il 24 febbraio con la sanguinaria invasione dell’Ucraina, uno Stato sovrano e libero, decisa da un autocrate, Vladimir Putin e dal suo brutale disegno imperialista. Dal primo giorno è stato chiaro il suo intento liberticida rivolto non solo a Kiev, ma all’Europa e ai suoi valori. Dal primo istante è stato chiaro chi fosse l’aggressore e chi l’aggredito. Non dobbiamo dimenticarlo mai.
Pochi giorni fa abbiamo ricordato la nostra Liberazione. I partigiani, i nostri Padri e le nostre Madri che ci hanno insegnato che la libertà e la pace non sono semplici parole, ma concetti vitali per cui lottare. Sapendo, come ha sottolineato il Presidente Mattarella, che “la libertà non è mai acquisita una volta per sempre e che per essa occorre sapersi impegnare senza riserve”.
Ecco perché il sostegno alla popolazione ucraina deve essere pieno, concreto e tangibile. Così come inflessibili devono essere le sanzioni al Cremlino. La fine del conflitto è l’obiettivo che tutti abbiamo. Ma non c’è deserto che possa essere chiamato pace.
Che trattative cerca, che pace vuole chi lancia missili sul segretario generale dell’Onu? C’è da chiedersi semmai che senso ha tenere un dittatore dentro il Consiglio di sicurezza delle nazioni unite. Allora diciamolo: non può esserci vera pace senza vera giustizia. Non può essere pace quella dettata da chi, con la forza delle armi, vuole spostare i confini dell’Europa perché non tollera la democrazia alle porte di casa. Le truppe di Mosca cessino il fuoco! Fermino il massacro! Si dia pieno ruolo a un negoziato, mediato dalle Nazioni Unite. Si dia speranza alla pace!
Una pace giusta, da conquistare e costruire. Quella che coincide con l’autodeterminazione del popolo ucraino. Quella che chiedono milioni di lavoratori, studenti e pensionati in Russia, invocando la fine delle ostilità e sfidando i metodi fascisti di Putin. A loro, nostri fratelli, ancora una volta, giunga la solidarietà del sindacato italiano.
La pace sta lì: nella fratellanza tra popoli. Nei valori delle democrazie liberali. Valori custoditi dalla nostra Costituzione, nei suoi principi fondamentali di partecipazione. Primo fra tutti, il lavoro. Così come viene sancito proprio dalla nostra Carta: non solo fonte di reddito, ma premessa di libertà personale e collettiva.
Lavoro che, come ha voluto ricordare Papa Francesco, “è una componente essenziale nella vita umana, ma è spesso ostaggio dell’ingiustizia”. È qui che dobbiamo esserci noi, che deve esserci il sindacato. A contrastare l’ingiustizia. A far sì che il lavoro non sia più precarietà, caporalato, sfruttamento dei più deboli, delle donne, dei migranti. Che torni ad essere sempre e ovunque dignità. Cittadinanza e inclusione. Premessa fondamentale e frutto della Pace. Il lavoro deve essere fonte di vita!
C’è una guerra che si combatte tutta dentro i nostri confini nazionali. Che vede cadere solo civili. Solo persone innocenti. È la guerra dei morti e dei feriti sul lavoro. Una strage infinita, vergognosa, che ha visto oltre 13 mila vittime nell’ultimo decennio, quasi 1.300 solo l’anno scorso, più di tre al giorno, soprattutto giovani e donne.
La ricostruzione deve essere fatta insieme ai lavoratori, e non sui loro corpi! Serve una svolta, non abbiamo più tempo né sangue da dare. Più controlli, migliore coordinamento, una patente a punti per le aziende legata anche agli appalti. Il lavoro è vita, non può trasformarsi in luogo e causa di morte.
Né si può essere poveri lavorando. Servono politiche che fronteggino con determinazione le conseguenze economiche e sociali della crisi energetica e dell’inflazione. Dobbiamo affermare che la sicurezza non può essere un costo ma un grande investimento. Ecco perché dobbiamo essere mobilitati. Servono politiche che fronteggino con determinazione le conseguenze della crisi energetica, dell’inflazione.
L’Europa finalmente ha dimostrato di avere capito la lezione. Ha abbandonato gli strumenti sbagliati dell’austerità e delle politiche di rigore finanziario, affrontando di petto alcuni temi, due terribili tragedia. Vogliamo vedere il volto di un’Europa della solidarietà su due questioni, quella della pandemia e una posizione univoca, politica, dell’Europa sulla guerra.
Bisogna andare avanti, fare di più continuare il cammino dell’integrazione. Costruire un’unione sociale del lavoro con una politica estera, di difesa comune, con una politica energetica. Per questo chiediamo un nuovo Recovery Energia che liberi risorse e aiuti gli stati membri ad affrontare l’emergenza energetica. Per questo dobbiamo rinegoziare un patto nuovo verso la sostenibilità. Per questo dobbiamo avere un’Europa che affronti in maniera più forte il tema del pilastro sociale.
E poi serve un maggiore protagonismo del nostro governo, delle nostre istituzioni nazionali. A partire da un nuovo Recovery per l’Energia che aiuti famiglie, lavoratori e comparti massacrati.
È il primo, grande compito che spetta al Governo: rispondere alla perdita di potere d’acquisto di salari e pensioni. Non basteranno i 5 miliardi del Def. Temiamo siano insufficienti a sostenere una crisi pesante che andrà avanti per molti mesi. Ecco perchè stiamo chiedendo al governo di valutare uno scostamento di bilancio, di alzare la tassazione sugli extraprofitti delle multinazionali di energia e logistica. Reinvestire gli introiti dell’IVA, di aiutare le famiglie defiscalizzando i frutti della contrattazione nel pubblico e nel privato.
Rinnoviamo i contratti a cominciare dal commercio, dalla chimica, dagli operai agricoli e dalla vigilanza privata ma anche i contratti dell’industria, della sanità, dell’istruzione e degli enti locali.
Dobbiamo costruire, caro Presidente Draghi, una fase di interlocuzione stabile permanente oggi più di ieri serve la necessità di rinegoziare un moderno PATTO SOCIALE per la crescita, lo sviluppo, il lavoro, contro le diseguaglianze.
Una nuova politica dei redditi: è di questo che c’è immediato bisogno. Coinvolgendo le Parti sociali. Utilizzando tutte le leve a disposizione:
- rafforzando il fondo sul “caro bollette”, elevando l’aliquota sugli extra-profitti energetici;
- riformando il fisco a sostegno dei redditi medio-popolari, defiscalizzando la contrattazione;
- attivando nuovi meccanismi contrattuali che riallineino i salari all’inflazione reale.
- sbloccando gli investimenti del PNRR per generare nuova occupazione stabile e di qualità, specialmente femminile.
È ampia, la lista del “cosa” fare. Una nuova politica industriale ed energetica che dia buon governo alle transizioni tecnologiche ed ecologiche. Protezioni universali, formazione e sostegno al reddito, supporto alle famiglie e alla non autosufficienza. Un grande investimento su scuola e pubblico impiego.
Una nuova previdenza che assicuri a tutti, a partire dai giovani, pensioni dignitose.
Una grande rivoluzione nel segno della partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese.
Ma l’elenco del “cosa” rimarrà sempre troppo lungo, se non sapremo intraprendere la giusta via del “come”. La via del dialogo e del confronto. Quella che abbiamo promosso con grandi assunzioni di responsabilità, nei passaggi più difficili di questa stagione martoriata da guerra e pandemia. Quella che il Presidente Draghi ha dimostrato di riconoscere, proponendo l’apertura di uno spazio di co-decisione su strategie di coesione e sviluppo.
Ora servono fatti. Bisogna disegnare insieme il cambiamento con un nuovo Patto sociale. È la strada più giusta. La più efficace.
È un tempo di grandi avversità. Ma anche di opportunità. Abbiamo l’occasione di far approdare l’Italia e l’Europa lì dove mai sono arrivate: ad un modello di sviluppo equo, che coniughi solidarietà, coesione e competitività.
Dobbiamo cogliere questa occasione e farlo insieme. Abbattendo le disuguaglianze. Redistribuendo crescita e opportunità. Dando un volto sostenibile alla globalizzazione. Unendo ciò che per lunghi anni è stato diviso. Donne e uomini. Giovani e Anziani. Italiani e migranti. Sud e Nord. Sindacato e Impresa.
Riusciremo se sapremo essere uniti nelle scelte decisive. Se il mondo del lavoro parteciperà all’opera di ricostruzione. Non c’è giorno migliore del 1° maggio per ribadirlo.
Il sindacato c’è. Cgil Cisl e Uil ci sono. E faranno, come sempre, la loro parte.